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Un altro mito di un’estrema semplicità e nello stesso tempo suscettibile di molteplici interpretazioni: il grembiule della donna di Pietraperzia. Lo trascrivo nella versione che ne ha dato Francesco Lanza, uno scrittore siciliano degli Anni Venti, uno di quegli scrittori che si sono dedicati a raccogliere e ricreare le tradizioni orali che pullulano in questa terra. « La pierzese aveva addosso un grembiule che toppe ce n’erano una sull’altra da non contarsi piú, e a cento colori; sicché divenuto spesso del doppio pareva invece la pannicciata dell’asino. Il marito, che glielo sapeva dal dì delle nozze, non poteva vederglielo piú in mano per rattopparselo, che non le bastavano mai pezze e le si sfaldava da ogni parte; e come venne la fiera gliene comprò uno nuovo. Quella a vederlo non sapeva quanto lodarlo, ch’era a fiorami; e intanto faceva: – Che belle toppe si possono tagliare di qua per il mio grembiule sciupato, e cosí posso mettermelo anche per la festa. E dato di mano alle forbici si mise a tagliare di là le toppe per quello vecchio; e a lavoro finito, lo mostrava tutta contenta al marito: – Guardate, marito mio, com’è ora rappezzato il mio grembiule, che pare nuovo nuovo ». L’essere abituati alla miseria, ai cenci, non basta e spiegare il gesto della donna di Pietraperzia; e chi vedesse in questo aneddoto solo un’allusione alla miseria secolare, alla povertà esistenziale del popolo siciliano perderebbe il significato piú importante di quel mito: la contentezza che suscita ciò che è variegato e composito. Dalla prefazione di Dominique Fernandez